giovedì, dicembre 05, 2002

Uccelli da gabbia e da voliera
Non so se vi è capitato di volare sopra Milano in un giorno d'inverno. C'è una specie di enorme cupola grigia, appoggiata sulla coppa di pianura dov'è dilagata la città. E' una cupola fatta dello stesso materiale che la racchiude: ha uno spessore senza fine, formato da strati e strati di grigio così densi e fitti uno sopra l'altro da non lasciar trasparire niente di quello che c'è in fondo

Arrivo in piazza del Duomo. La luce dei lampioni è così filtrata e trattenuta dalle particelle d'acqua, che l'aria e gli edifici hanno la stessa identica densità. [...] Non c'è nessun colore, non c'è nessun contrasto. Non ci sono nemmeno molte sfumature di grigio: forse due o tre.

C'è questa specie di luce perfetta, che nasce dal chiaro dei suoi occhi e si diffonde sulla fornte, percorre il disegno del naso, si sofferma sulla superficie delle labbra, asseconda la piccola curva del mento, risale le tempie delicate fino a perdersi nel tessuto dei capelli chiari ma non biondi nè nocciola, che ricadono a piccole onde sulle spalle ben formate, sulla figura che siede leggera dietro la linea del paino elettrico. Ma qualunque sia la mia scelta di parole, qualunque l'immagine che risulta dal mio metterle insieme, non c'è speranza che io riesca a descriverla con la stessa rapidità con cui appare ai miei occhi quando mi giro sulla porta e allungo lo sguardo nella stanza. Ci vorrebbe una sola parola in grado di racchiudere nel suo involucro decine di significati simultanei indirizzati a sensi diversi. Ci vorrebbe una specie di TAC o qualcosa del genere, se solo fosse leggibile per come mi interessa.

Alla fine dico a Malaidina "Ma tu suoni in modo straordinario": scandito così suona come un complimento ironico o un'esagerazione. Il fatto è che non riesco a controllare il tono della mia voce; non riesco a selezionare le parole prima che mi escano dalle labbra.

Il fatto è che meno sono sicuro di me, più questa inflessione sbagliata dilaga in quello che dico e mi riempie di esitazioni che dai contorni delle parole penetrano al loro contenuto, così che quando un suono è lontano da quello che dovrebbe essere sono perso al centro del suo significato.

Questa città del cavolo è il posto più triste del mondo. Davvero. Ma non è nemmeno triste in modo drammatico, con abissi di sensazioni e scosse negative abbastanza forti da provocare spavento. E' una specie di tristezza atomizzata, che resta sospesa nel'aria e si impregna in ogni superficie porosa che ci passa attraverso.

La sua sincerità è così "fisica", così poco basata sulle parole, che quello che dice è solo un ornamento alle sue espressioni, come un nastro colorato su un regalo.

I nostri campi magnetici vengono a contatto: ogni suo piccolo movimento origina una vibrazione che dalla periferia del mio lato destro mi arriva profonda tra il cuore e lo stomaco. Mi giro verso di lei; lei si gira verso di me, si ritrae in modo quasi impercettibile. Ci guardiamo molto fisso negli occhi; l'involucro sottile che delimita i nostri campi magnetici si tende e si tende finchè di colpo si lacera come una pellicola trasparente, e i nostri campi magnetici si fondono in un istante, e pensieri e gesti e mani e dita si lasciano risucchiare senza opporre la minima resistenza, si dissolvono uno dentro l'altro.

Adesso non mi importa più niente di avere aspettato; è una situazione così lontana che non mi riguarda più in alcun modo. E' strano come una situazione viene privata di consistenza dalla situazione che le succede, e lo spazio che le apparteneva ridotto e ridotto fino allo spessore di un foglio di cellofane.

"Ma come mai [...] ti sei fatto mandare a Milano?" "Credo per incontrare te", dico io. [...] "Davvero. Non è che io vada sempre a cercare una ragione dietro quello che mi viene di fare. La ragione di solito viene fuori dopo, quando ce n'è una. Viene alla superficie per conto suo".

Di colpo ho paura che stiamo scivolando per una discesa ripida, senza molte possibilità di controllare la caduta.


Mi sembra di aver lasciato a Milano l'estremità di un elastico di pensieri che si tende e si tende con ogni chilometro che facciamo; più mi inclino sul volante e premo il piede sull'acceleratore, più mi sento tirare indietro.

Non capisco nemmeno se è la situazione che mi fa scivolare in pendenza, o sono io che inclino a forza la situazione.

...e mi viene in mente che non c'è mai il minimo punto di contatto tra quello che mi immagino di un posto o di una persona o di una situazione e quello che il posto o la persona o la situazione sono in realtà. Non c'è una volta che io anticipi qualcosa e poi veda che le mie immagini mentali si sovrappongono a quelle vere come due diapositive identiche; nemmeno simili.

Ma è strano come non riesco mai a restare preoccupato a lungo. La preoccupazione mi resta viva solo finchè la sua origine è visibile o percepibile in altri modi, poi perde controno e si dissolve appena questa si allontana dal mio campo visivo, o acustico o olfattivo. Non so se è una forma di distrazione, o di stupidità parziale, o. Un attimo sono spaventato, e un attimo dopo mi lascio assorbire da pensieri di tutt'altro genere.

I miei gesti si impigliano in una rete fina di esitazioni, rstano sospesi tra le maglie anche dopo che sono diventati dati di fatto.

La guardo nell'anticamera, e non capisco come ho potuto dimenticare così in tanti particolari della sua figura e del suo viso e del colore dei suoi occhi e del suo modo di muoversi e guardarsi attorno e respirare, e ugualmente essere convinto di avere un'immagine di lei abbastanza vivida.

Continuo a guardarla, e non so bene cosa dire. Più la guardo e meno so cosa dire. Il fatto è che i suoi tratti e i suoi colori e i suoi particolari sono resi così vivi da questo sbilanciamento di stati d'animo, che l'effetto d'insieme mi toglie il respiro e tende a paralizzarmi nella contemplazione. Allo stesso tempo vorrei aiutarla in qualche modo, invece di stare a inalare il suo aspetto in questo modo.

"Non puoi stare in guardia con me. MI sembra di aver nuotato nel latte fino a quando ti ho incontrata, e di essere tornato a nuotare nel latte appena sei sparita, e adesso che sei qui di nuovo non puoi guardarmi in questo modo e restare a distanza e aver paura che io mi stupisca o indigni per quello che hai fatto. Non me ne importa niente di cosa hai fatto. Mi importa solo di cosa sei. Hai capito?"

E' strano, perchè avevo anticipato questo momento con immagini definite fino ai particolari minori, e adesso che ci sono dentro è tutto abbastanza confuso. Non riesco bene a capire che relazione hanno i miei gesti con quello che provo, se sono all'origine o sulla coda o di fianco alle mie sensazioni.

Non ho voglia di dipendere così da questo ricevitore; di essere così proteso verso la voce all'altro capo del filo.

"Ci sono almeno dieci situazioni diverse dove vorrei essere con te"


Andrea De Carlo