mercoledì, dicembre 11, 2002

ieri
"Il nostro diritto" di Gino Strada

Due mesi fa avevamo chiesto ai cittadini di dare un segno di pace per il 10 dicembre, nell'anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Avevamo chiesto di portare stracci bianchi, candele e bandiere di pace nelle piazze delle nostre città, dei nostri comuni, per dire che non vogliamo guerre nel futuro dei nostri figli.

Per tenere l'Italia fuori dalla guerra. E la guerra fuori dall'Italia.

Oggi, in Italia, sta succedendo qualche cosa di nuovo. L'iniziativa «Fuori l'Italia dalla guerra», lanciata da Emergency, Libera, Rete Lilliput e Tavola della Pace, è stata rigorosamente, scientificamente ignorata dai grandi mezzi di comunicazione televisivi e della carta stampata. A volte, quando frettolosamente ne è stata data notizia, se ne è travisato il significato presentandola come una «manifestazione di protesta».

Eppure la censura, in questo caso, non ha funzionato. Né hanno funzionato le stupidaggini dei vari «opinionisti» guerrafondai, pagati per trasformare l'informazione in spot pubblicitario della guerra.

E' successo che le persone, i cittadini, hanno ripreso a parlarsi, a interrogarsi sulla guerra e sulla pace, a comunicare gli uni agli altri il disagio, l'angoscia - o più semplicemente la perplessità - per un mondo che anziché progredire si ritrova, un'altra volta, sull'orlo di un conflitto che sarà devastante per tutti.

Un mondo sul quale si proietta come un'ombra lo spettro di un conflitto - l'attacco all'Iraq - che potrebbe allargarsi, e nel quale potrebbero essere usati anche ordigni nucleari. Così, nonostante la censura, o forse proprio a causa della censura, è scattato il passaparola: oggi in centinaia di città si svolgeranno iniziative contro la guerra. Milioni di cittadini saranno coinvolti, in questa gigantesca dimostrazione nonviolenta, esprimeranno la loro voglia pace. Regioni, Province, Comuni, centinaia di scuole, centinaia di associazioni di volontariato cattoliche e laiche, sindacali, centinaia di migliaia di famiglie diranno oggi con noi no alla guerra.

Negli ultimi decenni, decine di conflitti hanno insanguinato il pianeta producendo milioni di vittime e un enorme carico di disperazione e di povertà. Nel terzo millennio ancora non riusciamo a mettere al bando la guerra come mezzo di risoluzione dei nostri problemi. Perché? Perché non siamo capaci di trovare strategie alternative?

Il mondo in cui viviamo non è un quel «villaggio globale» che molti si ostinano a farci credere. Di villaggi, infatti, ce ne sono almeno due: il primo, di medie dimensioni - conta solo un miliardo e duecentomila persone - consuma l'83% delle risorse del pianeta. Di fronte a questo dato statistico si passa oltre frettolosamente, si prosegue nella lettura. Invece occorrerebbe rileggere la frase fino ad impararla a memoria, e a capirne il senso, perché lì dentro c'è tutta la cattiva coscienza - e soprattutto il crimine - del mondo sviluppato, civilizzato, democratico, libero.

Noi di Emergency, da cittadini di quel villaggio, crediamo sia un dovere morale riconoscere che ai quattro aggettivi di cui sopra dovremmo mettere le virgolette, per toglierle solo quando avremo risarcito e restituito il maltolto. Perché noi consumiamo l'83% delle risorse di tutti, e siamo solo il 20 percento della popolazione mondiale. E allora la nostra libertà e i nostri lussi, il potere e il danaro che ostentiamo ogni momento, tutto quello che abbiamo, insomma, è nostro, in buona parte, perché lo abbiamo sottratto ad altri. Certo non siamo andati noi personalmente a rubare di notte, ma è un fatto che nei Paesi dai quali importiamo frutti esotici per i nostri party gli esseri umani muoiono a milioni.

Loro, abitanti del secondo villaggio - di dimensioni enormi, in cui vivono quattro miliardi e settecento milioni di persone - sono nella situazione di doversi spartire quel 17% delle risorse rimasto disponibile. Lì, in quel villaggio, gli esseri umani nel terzo millennio muoiono di fame e di malattie, di povertà e di guerre.

Riusciamo ancora, noi democratici, donne e uomini liberi, a capire che cosa voglia dire morire di fame? Riusciamo a immaginare i mesi, i giorni, le ore che precedono la morte di un uomo, quando la sua vita si spegne semplicemente perché non ha nulla da mangiare? In quello sterminato villaggio si muore di povertà, perché chi deve tirare avanti con un dollaro al giorno spesso mangia poco e male, e vive in immondezzai, dove abitano anche malaria e tubercolosi, e alla fine, per una ragione o per l'altra o per tutte insieme, muore.

E si muore per le guerre. Conflitti tribali, sentenziano in molti, con il disprezzo tipico degli ignoranti, «si ammazzano da sempre, sono dei selvaggi».

Non ci meraviglia che ci sia tanta violenza dove la vita è misera, squallida e umiliante per tutti. Stupisce, piuttosto, che i grandi media liberi e indipendenti non facciano sapere ai cittadini che l'85% delle armi che massacrano donne e bambini in quei conflitti provengono dai rispettabilissimi paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'Onu, che le vendono ai dittatori e ai macellai di turno.

La maggior parte dei conflitti oggi in corso, e di quelli cui abbiamo assistito negli ultimi quarant'anni, sono stati incoraggiati, finanziati, armati, e in qualche caso pianificati dall'uno o dall'altro di quei paesi che insieme dovrebbero garantire «la sicurezza del pianeta».


Perché lo hanno fatto, e lo stanno facendo: libertà e democrazia, giustizia e diritti umani? Non prendiamoci in giro, sappiamo tutti benissimo che lo fanno per interessi economici, cioè perché in quei paesi c'è chi sulle guerre guadagna enormi quantità di danaro.

Loro, le grandi lobby che decidono le scelte politiche, sono una piccolissima parte del nostro villaggio, una specie di quartiere residenziale molto esclusivo: famiglie potenti, padroni del petrolio e delle armi, della finanza e dell'informazione, tanto per incominciare.

Hanno preso il potere in moltissimi paesi, a volte, dove sono riusciti, perfino in modo «democratico», imbottendo i cittadini di false informazioni per carpirne il consenso e il voto.

«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» afferma l'articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. E' stata sottoscritta anche dall'Italia. E' davvero così, per gli esseri umani che nascono nel 2003 sul pianeta Terra?

C'è giustizia nel mondo in cui viviamo, c'è solidarietà tra gli esseri umani? Agiscono, come dovrebbero in base all'articolo 1 della Dichiarazione universale, «gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza?»

Il 10 dicembre del 1948, poco dopo la fine di una guerra devastante, è stata scritta la Dichiarazione universale dei diritti umani. Nel preambolo, l'assemblea generale dell'Onu considera il riconoscimento dei diritti umani, uguali e inalienabili per tutti gli uomini, come «il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo».

La Dichiarazione universale è stato il tentativo di definire le regole del nostro stare insieme, i diritti di ciascuno di noi, i valori da promuovere perché l'orrendo massacro non avesse a ripetersi, mai più. Per cancellare l'incubo dell'olocausto e di Hiroshima.

A 54 anni da quella Dichiarazione, non uno dei paesi firmatari può affermare di averla rispettata.

Siamo convinti che le vittime civili siano la prima e forse l'unica verità della guerra, e che l'alternarsi di governi e dittatori ne siano soltanto, questi sì, effetti collaterali.

A cinquantaquattro anni da quella solenne Dichiarazione firmata e poi calpestata, siamo arrivati a un punto critico. Dobbiamo ricostruire i rapporti tra gli uomini sulla giustizia e sulla solidarietà. Altrimenti saremo condannati alla autodistruzione, non ci saranno vincitori né vinti, l'«esperimento umano» sarà fallito.

Praticare la Dichiarazione universale dei diritti umani è l'unico antidoto per vincere il cancro della guerra che sta divorando il pianeta. E' il primo dei compiti da scrivere nella nostra agenda, riuscirci è davvero nelle nostre mani. Per questo stasera si riempiranno le piazze italiane. Basta guerre, basta morti, basta vittime.

Gino Strada