giovedì, ottobre 03, 2002

C'è un paesaggio interiore, una geografia dell'anima; ne cerchiamo gli elementi per tutta la vita.
Chi è tanto fortunato da incontrarlo, scivola come l'acqua sopra un sasso, fino ai suoi fluidi contorni, ed è a casa. [...]
Possiamo vivere la nostra vita nella gioia o nell'infelicità, baciati dal successo o insoddisfatti, amati o no, senza mai sentirci raggelare dalla sorpresa di un riconoscimento, senza patire mai lo strazio del ferro ritorto che si sfila dalla nostra anima, e trovare finalmente il nostro posto.

Restammo in silenzio, e io distolsi lo sguardo dal suo viso. Quando tornai a guardarla, due occhi grigi fissavano i miei e trattenevano loro e me, immobili. [...] Una strana calma m'invase. Mandai un sospiro, profondo, come se a un tratto avessi cambiato pelle. Mi sentivo vecchio e soddisfatto. L'impressione di aver incontrato qualcuno che conoscevo mi era passata attraverso il corpo come una scossa elettrica. Per un attimo, un attimo solo, avevo incontrato uno come me, un altro della mia specie. Ci eravamo riconosciuti. Ero grato di quell'incontro, ma non volevo pensarci più.
Mi ero sentito a casa mia. Per un attimo, ma più a lungo dellla maggior parte della gente. Era sufficiente per la mia vita.
Naturalmente, non era sufficiente. Ma in quelle prime ore ero soltanto grato che si fosse presentato quel momento. Ero come il viaggiatore sperduto in un paese straniero che ode a un tratto non soltanto la sua lingua natìa, ma il dialetto che parlava da bambino. Non si chiede se la voce è quella di un nemico o di un amico, si precipita verso il suono che gli ricorda la sua casa. La mia anima si era gettata su Anna Barton. E io credevo che in una questione così privata tra me stesso e Dio mi sarebbe stato possibile lasciarla correre avanti, senza timore di danni al cuore o alla mente, al corpo o alla mia vita.
E' in questo sostanziale malinteso che inciampano molte esistenze. Nell'idea completamente sbagliata che tutto sia sottto controllo. Che si possa scegliere di andare o stare, senza soffrire.

La superficie rimaneva calma, ma il terreno cominciava a essermi meno fermo sotto i piedi. Stava venendo in luce una pecca tenuta nascosta per molto tempo. Un tremito mi scosse, brevissimo e quasi impercettibile, che quasi non meritava di essere notato. Ma così intenso fu il dolore che mi attraversò, che compresi di avere già subito un danno vero e proprio.
Non avrei saputo dire quale danno, o se mi sarei ripreso, o quanto tempo ci sarebbe voluto. Basti sapere che ero meno l'uomo che ero stato e più me stesso... un nuovo e strano me stesso.


Il danno di Josephine Hart